Archivio | 29 marzo 2011

Quando le cicale cantavano ancora.


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A volte nei pomeriggi d’estate  mi piace starmene in dormiveglia all’ombra, sul mio dondolo di vimini senza pensare a nulla, nel silenzio rotto ogni tanto da qualche motociclista rumoroso o da qualche moscone assetato  che viene a ronzare attorno ai chiusini asciutti. Me ne sto così immobile cercando sollievo alla calura , sorseggiando un succo di frutta gelato ed è in questi momenti  che mi ritornano alla memoria frammenti di passato, quando ragazzina vivevo la mia spensieratezza in un quartiere a pianta quadrata, attraversato da strade dritte che scendevano fino al mare, distante appena un tiro di schioppo da casa mia. Le strade erano a fondo naturale e frotte di ragazzini dalle ginocchia sbucciate e gli alluci spesso malridotti, giocavano a palla nelle zone d’ombra. Io che ho sempre amato il mare , insieme alle mie amichette, pregavo mia mamma di accompagnarci a fare un bagno, allora non si andava al mare senza un grande che ti accompagnasse. La rivedo ancora la mia mamma ricciolina, giovane e bella, col suo ombrellino nero, che usava d’inverno per la pioggia e d’estate per ripararsi dal sole , circondata da noi ragazzine che saltellavamo sui sassi come caprette, con le teste coperte da cappelli di paglia di tutti i colori, cantando a squarciagola. Ancora non c’era stato il boom edilizio e le strade attraversavano una zona di sciara, ricoperta da una vegetazione varia e un bouquet di odori e colori straordinario colpiva le narici e l’occhio:

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ginestre, capperi, erbe di vario tipo e soprattutto fichidindia, i cui frutti polposi, patendo sotto il sole, emanavano un odore intenso, dolciastro, ma non sgradevole. Mosconi e vespe ronzavano attorno ai frutti maturi, ma quel che più mi ritorna alla mente era il frinire delle cicale, numerose, nascoste fra gli arbusti, tenevano un concerto che echeggiava nell’aria calda senza tregua.

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Io ragazzina non ne avevo mai vista una, mi sembrava che dovessero essere grandi almeno quanto una mano, dal baccano che facevano. Accadde un pomeriggio…… dal momento che una cicala da un paio di giorni  stabilitasi su un albero di ulivo davanti casa nostra, iniziando in sordina “ci, ci …ci….ci.cicicicicicicicicici” non smetteva più fino al tramonto, il mio papà, proprio nell’ora canonica della pennichella,  non riuscendo a prender sonno, schizzò dal letto arrabbiato e bello come un dio greco, si arrampicò scalzo sul tronco dell’ulivo e catturò la malcapitata cicala, che smise di cantare e fu lo spasso di noi bambini fino a sera. Adesso che le strade sono state asfaltate, sulla sciara non crescono più ginestre e fichidindia, ma palazzine e residenze estive, non ci sono più i bambini che giocano a palla e  le cicale…. le cicale non cantano più.